Se, in generale, la tecnologia è un settore degli studi antropologici poco sviluppato, un campo di ricerca ancor più inesplorato è quello relativo “all’Antropologia di Miniera”, in cui l’elemento tecnologico assume, tra l’altro, un ruolo estremamente rilevante.
La miniera e la metallurgia hanno impiegato, in tutto il mondo, milioni di lavoratori dal Medioevo a oggi. L’industria estrattiva e i materiali di scarto della miniera e dell’attività metallurgica, hanno trasformato porzioni considerevoli della superficie terrestre.
In generale, secondo la definizione di Weisgerber e Pernicka:
«In the most general sense mining can be regarded as extension of the search for natural materials that could be used for the fabrication of tools and weapons or as ornaments (and for monetization)». (Corsivo mio. Weisgerber, Pernicka, 1995: 159)
Ricerche di “Antropologia mineraria” (Anthropology of mining), incentivate dopo la pubblicazione dell’articolo di Ricardo Godoy “Mining: anthropological perspectives” (1985), sono però ancora piuttosto rare. Come ha sottolineato l’archeologo Bernard Knapp:
«Despite the potential of ethnographic studies of mining to address questions of considerable contemporary interest in anthropology, such as globalization, indigenous rights, and new social movements, the anthropology of mining remains largely under-researched and under-theorized» (Knapp, 1997: 2)
Dato lo sfruttamento dell’industria mineraria su scala mondiale, risulta inverosimile il ritardo epistemologico in questo campo della disciplina antropologica, con la sola eccezione di studi locali o regionali sulle miniere, che presentano comunque una debole strutturazione teorica e metodologica.
L’emergere dell’Anthropology of Mining, a seguito della pubblicazione dell’articolo di Godoy, sembra essere diretta conseguenza anche del clamore suscitato dall’eccezionale boom della quotazione dei metalli preziosi, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, a cui seguì l’incentivazione mondiale dello sfruttamento dell’industria estrattiva, soprattutto in zone considerate “di frontiera” dell’Africa, dell’Asia e dell’America con l’impiego di manodopera locale. Questa corsa all’estrazione mineraria mondiale coincise con la chiusura delle miniere alpine, iniziata tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Ottanta. In questo periodo infatti, molti minatori che lavoravano nelle miniere delle Alpi, vennero ingaggiati da ditte per la realizzazione di trafori o di dighe anche al di fuori dei confini europei.
In concomitanza all’incentivazione dello sfruttamento estrattivo mondiale in “aree di frontiera”, ossia in zone, spesso marginalizzate, che costituivano i classici terreni di ricerca degli antropologi, vennero promossi progetti umanitari in difesa di quelle comunità indigene che venivano impiegate, dalle multinazionali, nell’attività mineraria. Questi progetti umanitari furono incoraggiati inoltre dallo sviluppo di ulteriori politiche promosse da organizzazioni umanitarie rivolte al riconoscimento dei diritti delle comunità indigene come l’United Nations Working Group on Indigenous Population nel 1982, l’U.N. Draft Declaration on the Rights of Indigenous People e l’incremento di movimenti sociali indigeni e di forze non governative rivolti ai diritti dei nativi. Una seconda spinta a sostegno di progetti umanitari fu data dall’istituzionalizzazione della valutazione d’impatto su larga scala delle operazioni minerarie, permettendo l’inserimento delle comunità locali, in veste di attori principali, nel promuovere e nel difendere le risorse del loro territorio.
L’attuale stato dei lavori
Nonostante gli ampi margini di sviluppo, negli ultimi venticinque anni, gli studi nel settore dell’attività estrattiva sono diventati importanti campi di investigazione e di controversie per gli antropologi. Come oggetto di studio la “miniera” mette in luce specifici problemi che possono trovare un terreno fertile che consente di esplorare nuovi percorsi teorici e metodologici, oltre che etici e politici.
Ricerche di Antropologia Mineraria hanno messo a disposizione preziosi materiali di studio per ulteriori indagini interdisciplinari, le più frequenti e durevoli delle quali si sono rivolte soprattutto alle questioni relative alle proteste sindacali e al riconoscimento dei diritti dei lavoratori nel rapporto con il sistema industriale, imposto solitamente dall’esterno (Denoon, 1996).
Altri importanti lavori si sono occupati dello studio dei sistemi di promozione politico-economica per il richiamo di manodopera immigrata (per lo più ragazzi giovani) da impiegare in varie miniere africane per l’estrazione di oro o di diamanti. Queste ricerche sono fonti importanti che hanno dato avvio ad altri studi sui processi di organizzazione politica dei lavoratori, sul rapporto tra minatori, denaro e sesso e sulle esperienze di guerra legate ai soldi ricavati dall’attività mineraria. Quest’ultimo punto è stato ampiamente approfondito nei lavori di Lorenzo d’Angelo relativi alle miniere di diamanti della Sierra Leone in cui mette in luce che:
«Alla fine degli anni Novanta, le contemporanee guerre civili in Angola, Congo-Zaire, Liberia e Sierra Leone sembravano avere tutte un denominatore minimo comune messo bene in luce da attivisti, giornalisti, analisti e persino da alcuni artisti: i diamanti estratti e venduti per comprare armi e riciclare soldi “sporchi” o per finanziare altre guerre ed attività terroristiche internazionali». (d’Angelo, 2013: 87).
Gran parte degli studiosi (ad es. Richards 1996, Keen 2005), degli attivisti (ad es. GW 1998, ICG 2003) e degli esperti delle agenzie per lo sviluppo (ad es. USAID 2001, DDI 2002) che hanno analizzato le ragioni del conflitto in Sierra Leone, Angola, Congo, Liberia e Zaire sono però concordi nel ritenere che i diamanti non sono stati la causa delle guerre civili, anche se sono certamente serviti ad alimentarle e a prolungarle (Maconachie and Binns 2007).
Oltre a ricerche sul rapporto tra sfruttamento industriale della risorsa mineraria ed organizzazioni sindacali dei lavoratori, negli ultimi anni è aumentato l’interesse scientifico per il livello estrattivo artigianale, o di piccola scala, dei diamanti e dei metalli preziosi africani. Il motivo è in parte da ricercare nell’effetto del boom estrattivo esploso negli ultimi due-tre decenni (Ballard and Banks 2003) e, in parte, anche per effetto del clamore suscitato dai cosiddetti “minerali da conflitto”. L’effetto combinato di questi due fenomeni ha, a sua volta, contribuito ad attirare l’attenzione di alcune delle principali agenzie governative internazionali come la World Bank e l’International Labour Organization, con un conseguente effetto a valanga in termini di progetti e analisi di settore (Werthman and Grätz 2012). Non sorprende, dunque, che molti degli studi pubblicati sulle riviste accademiche internazionali si siano focalizzati su questo specifico settore estrattivo, orientati dalle stesse preoccupazioni degli esperti dello sviluppo. Un tema molto comune tra questi studi è, infatti, il rapporto che esiste tra estrazione mineraria, povertà e conflitti (ad es. Fischer 2007, Fischer et al. 2009). Un altro tema a cui è stata dedicata particolare attenzione è il rapporto tra i vari livelli (artigianale e larga scala) (Yelpaala and Ali 2005) o i diversi tipi di estrazione (ad es. diamanti e oro) (Amankwah and Anim-Sackey 2003, Hilson 2010, Nyame, Grant 2012), nonché tra le varie forme di sussistenza economica alternative o complementari all’estrazione stessa (ad es. agricoltura).
Gli studi e le ricerche di Anthropology of Mining sono state estremamente utili e stimolanti anche sotto altri punti di vista. Per esempio, come ha messo in luce d’Angelo in riferimento alla situazione in Sierra Leone, con l’approssimarsi della fine della guerra, tra gli esperti dello sviluppo e i donors internazionali, sorse una questione: come convertire una potenziale risorsa di guerra in una effettiva risorsa per la pace e la prosperità? È a partire da questo semplice interrogativo che alcune importanti agenzie governative per lo sviluppo hanno cercato la collaborazione di esperti dell’industria mineraria, di attivisti per la difesa dei diritti umani, di esponenti della società civile e del Governo della Sierra Leone per trovare soluzioni condivise al problema dei “conflict diamonds”. La ricerca delle soluzioni a questo problema ha prodotto nel tempo conoscenze sempre più dettagliate sui diamanti provenienti dalle miniere alluvionali di questo paese dell’Africa occidentale. Le principali agenzie governative hanno infatti finanziato, pubblicato o semplicemente promosso, studi e ricerche sul campo utili alla progettazione e all’implementazione delle proprie iniziative. Grazie a queste analisi pensate per produrre risultati operativi, ma non senza punti di contatto con il dibattito accademico nato in parallelo, possiamo farci un’idea della complessità del lavoro dell’Anthropology of Mining e dei suoi tanti aspetti problematici.
Tuttavia, ci sono alcune domande che vale la pena porsi per non dare per scontati i risultati e le proposte operative di queste ricerche: quali obiettivi e quali interessi hanno orientato e giustificato i progetti di sviluppo dedicati ai conflict diamonds? Perché tanto interesse per il livello artigianale dell’estrazione dei diamanti e non, per esempio, per i livelli estrattivi su larga scala? Quali premesse e quali assunzioni hanno guidato e condizionato le agende di intervento degli esperti e dei tecnici dello sviluppo interessati ai minatori della Sierra Leone, come anche di altri Paesi africani? (d’Angelo, 2013: 88).
In generale, le guerre civili negli Stati africani sopra citati, hanno prodotto immagini di raccapriccianti massacri, che fecero il giro del mondo attraverso i principali canali mediatici con scene di uomini e donne mutilati, di bambini che imbracciano mitragliatori, di corpi martoriati o tremanti.
Queste immagini contribuirono ad alimentare le campagne degli attivisti per i diritti umani che denunciavano, sin dal 1998, il legame tra la guerra e i diamanti estratti e contrabbandati in Angola. Nel 1999, un insieme di ONG europee e africane diede vita alla Fatal Transaction Campaign. Grazie a questa campagna di sensibilizzazione, espressioni come “conflict diamonds” e “blood diamonds” entrarono nel linguaggio comune. Le responsabilità dei protagonisti diretti del conflitto (i vari gruppi militari combattenti) furono messe in primo piano insieme a quelle dell’industria dei diamanti – accusata di essere complice dei guerrieri e di lucrare sulla pelle delle vittime civili.
Preoccupati per il potenziale danno d’immagine creato da queste iniziative e dal rischio di un crollo del mercato delle gemme preziose, i principali rappresentanti dell’industria mineraria iniziarono a collaborare con i rappresentanti di governo e della società civile nella realizzazione di un sistema di certificazione sulla provenienza dei diamanti. Il Kimberley Process Certificate Scheme (KPCS) entrò in vigore il 1° gennaio del 2003 (GW 2003, GW 2006) e, da allora, certifica che i diamanti comprati e venduti dagli Stati e dalle istituzioni che vi hanno aderito sono “free conflict”, ossia che non provengono da zone di guerra.
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