La percezione del colore è culturalmente ed individualmente condizionata (1° parte)

Nel nostro campo visivo abbiamo uno spazio di forma indefinibile popolato di oggetti. Automaticamente siamo abituati a non collocare questi oggetti su uno stesso piano ma piuttosto a distanze differenti da noi e ad attribuire loro delle dimensioni e dei volumi. Il cervello reinterpreta dunque continuamente i dati che legge nei fotogrammi che vengono proiettati sul suo schermo e dà continuamente apprezzamenti di valore, anche in base ai dati che già conosce, ricostruendo in tre dimensioni ciò che sulla retina appare come un’immagine piana.

Una delle più grandi proprietà dell’occhio umano è quella di poter reagire alle variazioni di un’onda luminosa. L’occhio può percepire l’emissione di onde comprese tra i 3,8 e i 7,6 nm e, poiché ogni oggetto rifrange onde luminose, il nostro occhio è bombardato da una quantità illimitata di impulsi che esso decifra in termini di impressioni di “colore” (cfr. Cardona, 1995: 147).

Ma quali e quanti sono i colori? Ciò che chiamiamo colore ha dei confini da un lato (l’inizio delle radiazioni ultraviolette) e dall’altro (quelle delle radiazioni infrarosse) dello spettro visibile.

Ciò che concorre a formare la sensazione del colore sono, oltre alla tonalità cromatica (cioè la sua posizione nello spettro), anche la brillantezza (intensità, luminosità) e la saturazione (purezza della distribuzione delle onde). Si è calcolato che l’insieme di combinazioni delle differenze di valore percepibili in queste tre varianti sia di 7.295.000 differenze visibili. Questo è un massimo fisiologico teorico. Più realisticamente si calcola che siano 120/150 tonalità diverse percepibili dall’occhio umano. Quotidianamente però è facile rendersi conto che le estesissime possibilità ottiche rimangono solo allo stato virtuale. Nella pratica i colori distinti e riconoscibili sono relativamente pochi di numero ma ben caratterizzati e carichi di valori funzionali: l’uomo vede solo i colori che culturalmente ha imparato a riconoscere.

La visione del colore è un universale solo biologicamente parlando, ma ogni cultura distingue le sensazioni cromatiche in base alla funzionalità.

Interessante è vedere inoltre che, anche all’interno di una stessa cultura, i sistemi classificatori del colore non sono statici, ma mutano sia nel tempo sia in base all’esperienza individuale di una persona e alla sua formazione scolastica e lavorativa.

Provate a fare questo esperimento: sottoponete, in due momenti distinti, uno spettro solare a due persone professionalmente differenti (per esempio una casalinga e un pittore) per capire se percepiscono i colori in maniera uguale o differente.

Quasi sicuramente vi accorgerete che le due persone, davanti allo stesso spettro solare, non percepiranno i sette colori dello spettro solare o comunque gli stessi colori (sia nella zona del visibile che nell’infrarosso e nell’ultravioletto). Se si giunge a questi risultati è facile capire che non è possibile utilizzare concetti considerati aprioristicamente come universali e “scientifici”. La divisione dello spettro solare in sette colori è ricostruibile storicamente, cosa che evidenzia come essa sia una convenzione. Nel 1669 Newton espone la descrizione dello spettro diviso in cinque colori: rosso, giallo, verde, blu, viola. Nel 1671 a questi colori si aggiunsero l’arancione e l’indaco. Nel 1704 nell’ottica i colori primari divennero sette: rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco, viola.

Schematizzando, nella cultura occidentale, le sensazioni cromatiche si basano su alcuni principi fondamentali: il colore è una categoria astratta; una lunga tradizione pittorica ci ha abituati a rappresentare a colori qualsiasi oggetto; la standardizzazione implica che un colore sia perfettamente riproducibile.

Un altro esempio per dimostrare che la divisione dello spettro solare in sette colori è una convenzione è dato dallo studio del grecista Gladstone che analizzò la visione dei colori per i Greci. Uno stesso termine indicava cose che per noi hanno colori diversi come il sangue, lo smeraldo, l’olio, le lacrime, il miele che erano indicati con il termine “Khlorós” inclusi nella stessa categoria non in base alla tonalità.

Dal punto di vista metodologico quindi si presta bene, per il nostro esperimento, l’analisi connessionistica che considera le classificazioni politetiche, tipiche delle classificazioni popolari e non scientifiche, caratterizzate nell’essere induttive e basate sulla percezione e sul riconoscimento immediato di una percezione o esperienza (gestalt).

Tornando al nostro esperimento sarà possibile scoprire che il dato percettivo del nostro pittore ipotetico sarà offuscato da un’acculturazione scolastico-professionale che farà percepire i colori secondo categorie astratte e quindi classificabili in base a colori primari e secondari. Per quanto riguarda la nostra casalinga sarà invece presumibile che il numero dei colori e la loro qualità sia maggiore, più dettagliata e meno concettuale. Non accennerà quasi sicuramente alla corrispondenza tra i colori primari e secondari perché non è abituata a farlo. Al contrario la sua classificazione sarà politetica, fondata cioè su una percezione e sul riconoscimento immediati di un colore.

E chi il colore non può vederlo, che percezione avrà di esso?

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