Self-branding femminile. Tra autenticità ed artificio nella “cultura del brand” (Prima parte)

(Articolo pubblicato in Dialoghi Mediterranei, Periodico bimestrale dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo. ISSN2384-9010)

Sarah Banet-Weiser, docente alla Annenberg School for Communication and Journalism e al Department of American Studies and Ethnicity all‘University of Southern California, afferma che negli Stati Uniti del XXI secolo, ogni cittadino americano instaura relazioni con i brand. Coca-Cola, Apple, Starbucks, Levi’s, Visa, MTV e molti altri marchi inondano il panorama culturale, economico, sociale, politico della vita quotidiana delle persone. La legittimazione dei brand, sostiene la studiosa, così come è stabilita, regolarizzata ed accettata nella società occidentale, va compresa a partire dalle sue origini storiche nel XVIII secolo. Negli Stati Uniti del 1700, il brand rappresentava, letteralmente, un processo di creazione e di distribuzione di prodotti che erano registrati sotto un marchio di appartenenza personale. Questo significava che, per esempio, dei capi di bestiame potevano essere riconosciuti a partire dal proprietario di un ranch, il quale, a sua volta, tendeva a differenziare, dal punto di vista delle caratteristiche fisiche, la sua mandria rispetto alle altre.

Con l’avvento della produzione di massa come caratteristica preponderante dell’industrializzazione del XIX secolo, assieme al cambiamento tecnologico (con l’implicazione del design), allo sviluppo dei trasporti e delle pratiche di lavoro, il processo di brandizzazione venne maggiormente regolamentato. Liz Moor, docente al Department of Media and Communication alla Goldsmiths University of London, afferma che il brand e le merci ad esso associate sono diventate, nella cultura occidentale a partire dal XIX secolo, valori culturali immaginati e distribuiti in un panorama di competitività commerciale (Moor, 2007). In particolare Moor sostiene che il processo di brandizzazione fa leva sulla necessità di creare valori culturali per realizzare valori economici. Moor ha notato inoltre che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i cittadini europei e statunitensi erano incoraggiati ad acquistare prodotti associati a particolari marchi come segno di fedeltà alla nuova immagine della loro nazione. A sua volta tale tendenza era direttamente correlata alla costante pressione, nei confronti dei cittadini, verso bisogni, culturalmente determinati e veicolati attraverso particolari forme comunicative, in grado di colmare la percezione sociale di disordine causata dalla guerra.

La connessione tra marketing, commercializzazione e valori culturali, a partire soprattutto dal secondo dopoguerra, è andata a formarsi attraverso dinamici processi storici. La sociologa Viviana Zelizer afferma l’esistenza di una generale avversione a concepire le relazioni umane come monetizzabili e, anche dal punto di vista legale, a valutare gli individui in termini di monetizzazione; ciononostante, nell’economia politica occidentale, dall’avvento dell’industrializzazione, passando attraverso il capitalismo liberale, il post fordismo, fino ad arrivare al neoliberismo, i marchi sono diventati il mezzo attraverso cui le persone costruiscono categorie culturali su loro stessi, sugli altri e sulla vita in generale.

Brand come fatto sociale totale.

Zelizer sostiene che gli scambi economici sono organizzati entro significati culturali. Ma, contemporaneamente, nell’attuale “cultura del brand” i significati culturali sono organizzati e compresi entro gli scambi economici. Il processo di brandizzazione è creato ed accettato all’interno di questa interrelazione dinamica in cui, afferma Banet-Weiser, diventa ridondante, dal punto di vista culturale, la demarcazione tra marketers e consumatori, tra venditori e acquirenti. I consumatori, secondo la studiosa, sono parte integrante del processo di costruzione dei brand; attraverso le loro pratiche di scelta e di selezione, co-producono brand e nuove relazioni tra venditori e consumatori e tra consumatori e consumatori, all’interno di un contesto e di un linguaggio culturalmente brandizzato.

Celia Lury, dell’University of Warwick, fa notare inoltre che l’invenzione del “marketing sociale” e del crescente interesse dei marketers verso approcci tipicamente non business (come l’antropologia e la sociologia), hanno incoraggiato lo slittamento verso una percezione attenta alla relazione tra produttore e consumatore. In pratica si è passati da una visione in termini di stimolo-risposta ad un’attenzione dello scambio relazionale. Questa relazione costa certamente fatica sia per i marketers che per i consumatori ed è probabilmente più nettamente dimostrata nell’aumentato uso di social media, come le pagine personali di Facebook o l’uso di YouTube, per tentare di promuovere servizi o prodotti per fini commerciali; in questi spazi, consumatori e marketers sono coinvolti in un autentico rapporto di scambio di valori culturali capaci di creare una “corporate brands” (Lury, 2004). Attraverso l’uso di social media, i marketers aumentano (e sfruttano) la possibilità concreta di costruire un dialogo ed una relazione, più o meno diretta, con i consumatori attraverso prodotti i quali permettono, a loro volta, di enfatizzare uno scambio affettivo tra consumatori e azienda (Banet-Weiser, 2012: 8).

L’analisi della “cultura del brand” implica complesse strutture teoriche per comprendere i processi attraverso cui i valori socio-culturali si intrecciano con le attuali pratiche di business. Sostiene Sarah Banet-Weiser:

«In the contemporary US, building brands is about building an affective, authentic relationship with consumers, one based – just like a relationship between two people – on the accumulation of memories, emotions, personal narratives, and expectations. Brands create what Raymond Williams called a structure of feeling, an ethos of intangible qualities that resonate in different ways with varied communities. We cannot productively think about brand culture, or what brands mean for culture, without accounting for the affective relation quality – the experience – of brands. These affective relationship with brands are slippery, mobile, and often ambivalent, which makes them as powerful and profitable as they are difficult to predict and discuss. It is through these affective relationships that our very selves are created, expressed, and validated. Far more than an economic strategy of capitalism, brands are the cultural spaces in which individuals feel safe, secure, relevant, and authentic» (Banet-Weiser, 2012: 9).

A differenza di Raymond Williams, Banet-Weiser non concepisce semplicemente i valori culturali e le pratiche di business come forme correlate tra loro; se Williams affermava che le forme culturali interagivano con le pratiche economiche ma si distinguevano da esse, Banet-Wiser propone invece l’impossibilità (e l’assurdità) di separare, all’interno della logica neoliberale, la “cultura”, antropologicamente intesa, dalle forme economiche. Le strategie di marketing e la logica che consente ai brand di essere compresi ed accettati culturalmente sono, secondo la studiosa, gli strumenti attuali per vivere la cultura occidentale di oggi. Logorama. Los Angeles brandizzata.

Volendo proporre alcune riflessioni (anche se per il momento molto generiche) per “un’etnografia del processo di brand” in contesti occidentali, è utile tenere presente che la trama di interpretazioni culturali del brand è assai variegata da contesto a contesto. Al di là della morale, un esempio di come possa essere concepito il concetto di brand e il suo ruolo nell’antropopoiesi occidentale, è “Logorama”, un cortometraggio di sedici minuti scritto e diretto, nel 2009, dal gruppo francese H5 composto dagli artisti François Alaux, Hervé de Crécy e da Ludovic Houplain. Il cortometraggio, al di là degli elogi e dei premi ricevuti (come il Prix Kodak al Festival di Cannes nel 2009 e il premio come miglior cortometraggio animato all’Academy Awards nel 2010), è qui rappresentativo in quanto veicolo di un particolare immaginario culturale occidentale del concetto di brand. L’animazione è ambientata nella Los Angeles del futuro. La città è costituita interamente di insegne pubblicitarie. Microsoft, Visa, Enron, BP e altri loghi, ricoprono interamente la città. Ogni cittadino è “brandizzato”, ossia incarnato in prodotti commerciali viventi che si animano. Anche gli animali dello zoo sono brandizzati; c’è l’alligatore di Lacoste, il leone di Metro-Goldwyn-Mayer film corporation, la farfalla di Microsoft Window.

Il personaggio principale del film è Roland MacDonald il quale apporta caos in città tenendo in ostaggio i cittadini e sparando alla folla, mentre un gruppo di poliziotti brandizzati tentano di catturarlo. Dopo che gli ostaggi riescono a fuggire dal pazzo assassino, un’apocalisse naturale si abbatte sulla città causando un terremoto ed un disastroso tsunami di petrolio.

Roland-MacDonald-Logorama

A prima vista “Logorama” è una bizzarra ed allarmante immagine di futuro. Ma quale avvertimento porta con sé il cortometraggio? L’obiettivo soggiacente a “Logorama” è, secondo i filmakers, dimostrare fino a che punto si estendono le immagini di brand e come questi ultimi sono incorporati nella cultura occidentale e nelle relazioni quotidiane (in questo caso distruttive) tra persone. I personaggi, i loro corpi, sono “culturalmente disciplinati” dai brand. Essi, attraverso i loro corpi brandizzati, riflettono valori e disposizioni culturali, così che i loro corpi si fanno veicolo per manifestare, in un mondo brandizzato, la propria identità sociale ed individuale.

 

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