Sul patrimonio di conoscenze popolari. Riflessioni epistemologiche (prima parte)

(Articolo pubblicato in Dialoghi Mediterranei n. 32; ISSN 2384-9010)

In Italia gli studi sul folklore stanno attraversando, già da alcuni decenni, momenti di crisi, etnolinguista di formazione che insegna anche Storia delle Tradizioni Popolari all’Università di Venezia, sostiene che i docenti di antropologia non sembrano essere più disponibili ad insegnare, nelle università italiane, demologia. Di conseguenza, si sta perdendo un patrimonio di conoscenze che sarà in futuro difficile ricostruire (Sanga, 2017: 16).

Sarà bene preliminarmente introdurre alcune definizioni del concetto di “folklore” che, a mio avviso, dovrebbe essere sottoposto a nuove riflessioni epistemologiche. L’American Folklore Society definisce il “folklore” come: «the traditional art, literature, knowledge, and practice that is disseminated largely through oral communication and behavioral example».

Come per il concetto antropologico di “cultura”, anche per il concetto di “folklore” sono state date diverse definizioni da parte degli antropologi. Dorothy Noyes afferma, per esempio, che:

«Folklore is a metacultural category used to mark certain genres and practices within modern societies as being not modern. By extension, the word refers to the study of such materials. More specific definitions place folklore on the far side of the various epistemological, aesthetic and technological binary oppositions that distinguish the modern from its presumptive contraries. Folklore therefore typically evokes both repudiation and nostalgia» (Noyes, 2004: 375).

Barbro Klein precisa che:

«Folklore has four basic meanings. First, it denotes oral narration, rituals, crafts, and other forms of vernacular expressive culture. Second, folklore, or ‘folkloristics,’ names an academic discipline devoted to the study of such phenomena. Third, in everyday usage, folklore sometimes describes colorful ‘folkloric’ phenomena linked to the music, tourist, and fashion industries. Fourth, like myth, folklore can mean falsehood» (Klein, 2001: 5711).

Altri studiosi, come Martha C. Sims e Martine Stephens, sostengono invece che per il concetto di “folklore” sia impossibile fornire una definizione precisa:

«Folklore is many things, and it’s almost impossible to define succinctly. It’s both what folklorists study and the name of the discipline they work within. Yes, folklore is folk songs and legends. It’s also quilts, Boy Scout badges, high school marching band initiations, jokes, chian letters, nicknames, holiday food…and many other things you might or might not expect. Folklore exists in cities, suburbs and rural villages, in families, work groups and dormitories. Folklore is present in many kinds of informal communication, whether verbal (oral and written texts), customary (behaviors, rituals) or material (physical objects). It involves values, traditions, ways of thinking and behaving. It’s about art. It’s about people and the way people learn. It helps us learn who we are and how to make meaning in the world around us». (M. C. Sims, M. Stephens, 2005: 2).

Leggendo le definizioni di “folklore” si nota che esse, in misura maggiore o minore, richiamano una ideologia, in un certo senso, ancora ottocentesca. Anche in Italia, ancora oggi, le ricerche demologiche faticano a sganciarsi da vecchie ideologie che presuppongono, attraverso la raccolta di materiale etnografico, la conservazione e la comunicazione di una particolare immagine del popolo, il cui patrimonio è trasmesso grazie all’oralità, visibile nelle usanze e nei riti, nelle credenze e nei comportamenti.

In Italia, la Storia delle Tradizioni Popolari, che può essere considerata il nostro peculiare e originario modo di fare antropologia, sembra essersi incastrata in un vicolo cieco. E tra i principali problemi sta il fatto che, scomparendo scuole e allievi, diventa più difficile garantire sia un futuro ad uno storico campo di studi e di ricerche, sia un cambiamento epistemologico che gli orientamenti scientifici oggi necessitano.

Afferma ancora Sanga che la situazione della demologia italiana non nasce oggi ma viene da lontano, e una responsabilità va attribuita a uno dei nostri maggiori folkloristi, Alberto Cirese, che nel 1971 ha voluto abbandonare la Storia delle Tradizioni Popolari, insegnamento ricoperto a Cagliari, per passare a Siena (e poi a Roma) sulla cattedra di Antropologia Culturale, considerata forse più prestigiosa per uno studioso di ambizioni internazionali, in ciò seguito dalla sua ricca e importante scuola di folkloristi sardi, che sono passati quasi tutti (Angioni, Clemente) a insegnare Antropologia Culturale. Questo fenomeno ha determinato un oggettivo indebolimento dello stato della materia in Italia, con il conseguente volgere verso tematiche “esotiche”, che hanno nel tempo allontanato dalla consuetudine di fare ricerca in contesto domestico, impoverendo un ambito disciplinare che ha fornito il più importante contributo italiano agli studi antropologici. In pratica si è abbandonata la serie A dell’antropologia (quella di De Martino, tanto per intenderci) per scivolare fatalmente nella serie B del panorama internazionale. Può darsi che la sfida proposta da De Martino fosse troppo impegnativa, nondimeno di fatto si è abbandonato il terreno di ricerca a noi più consono e più favorevole – fortunatamente salvo numerosi lodevoli eccezioni concentrate nell’Italia meridionale (Palermo, Bari, Napoli, Cosenza).

Museo Nazionale Arti e tradizioni popolari, Roma

In verità lo studio del folklore in Italia è stato curiosamente praticato più da studiosi che provenivano da campi esterni, anche se contigui, che dai folkloristi in senso stretto, a cominciare dallo stesso Ernesto de Martino, storico delle religioni. Si pensi ai contributi portati da storici come Carlo Ginzburg, Peter Burke (Cultura popolare nell’Europa Moderna), Giuseppe Galasso (L’altra Europa); da sociologi come Danilo Montaldi (ricerche su marginali e sottoproletari); da letterati come Piero Camporesi (studi storici sui vagabondi, i contadini, l’alimentazione); da giuristi come Antonio Pigliaru (La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico); da musicologi come Diego Carpitella (ricerche sull’oralità, la cinesica, la prossemica popolari), Roberto Leydi (studi di storia sociale), Bruno Pianta (ricerche sui minatori e sui marginali), Pietro Sassu (monografie su Premana e su Sant’Alberto di Ravenna) e da storici delle religioni come Alfonso Di Nola (studi sulla religione e sulla medicina popolare).

Questi apporti dall’esterno sono stati certamente una vera fortuna per la disciplina della Storia delle Tradizioni Popolari, ma forse non hanno contribuito alla sua continuità istituzionale, perché gli studiosi sopra ricordati formavano allievi e successori in altri campi e non nel settore specifico nel folklore. Questa situazione alla lunga ha comportato uno sfilacciamento dei quadri, la difficoltà di rimpiazzare i docenti in uscita e la crisi di trasmissione del patrimonio di conoscenze che si è formato negli ultimi settant’anni. Afferma inoltre Sanga che, a giudicare almeno dal suo osservatorio veneziano, gli studenti si orientano sempre più verso ricerche esotiche o verso tematiche che esulano dallo studio della cultura popolare. La stessa prospettiva sincronica dello studio dalla cultura popolare sembra oggettivamente in crisi se non obsoleta, di modo che la materia appare destinata a trasformarsi lentamente nello studio storico della cultura popolare italiana (Sanga, 2017: 17).

Uso storico-epistemologico dei materiali folklorici 

 Questa introduzione fa da cornice a ciò che intende presentare il presente contributo. Lo scopo di questo articolo è quello di sintetizzare alcuni aspetti di una ricerca condotta nel quadro di un PRA dell’Università di Pisa sul fenomeno delle rievocazioni storiche. In particolare, il contributo, presenta alcune riflessioni emerse a seguito dello studio e raccolte nel volume Rievocare il passato: memoria culturale e identità territoriali curato da Fabio Dei (docente di antropologia all’Università di Siena) e da Caterina Di Pasquale (antropologa e docente all’Università di Firenze). Il libro restituisce gli atti del convegno omonimo tenutosi presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa nei giorni 15 e 16 febbraio 2017 e dedicato allo studio delle rievocazioni storiche in ottica multidisciplinare (storia, geografia, antropologia culturale).

Il progetto ha assunto, nel suo senso più lato, il concetto di “rievocazione storica” intendendo con esso quella sempre più ampia gamma di eventi e pratiche pubblici accomunati dalla volontà di rivivere o mettere in scena momenti del passato storico, attraverso performance di massa caratterizzate dall’uso di costumi e di ricostruzioni di ambienti e manufatti “d’epoca”. L’obiettivo del lavoro è stato in primo luogo la documentazione del fenomeno, con particolare riferimento alla regione Toscana, attraverso un censimento degli eventi e dei soggetti coinvolti. In secondo luogo, il progetto ha inteso avviare una riflessione interpretativa sui significati che questo tipo di eventi esprimono nella società italiana ed europea contemporanea, in relazione ai temi dell’identità territoriale, del turismo e dello sviluppo economico locale, del patrimonio culturale e della popular culture.

Il convegno ha da un lato presentato i primi risultati delle ricerche svolte, sia sul piano dell’impostazione metodologica e teorica, sia attraverso specifici case studies; dall’altro lato, ha cercato il confronto con studiosi che si sono già occupati in passato del tema, nonché con esperti del settore, dirigenti di associazioni, amministratori pubblici. Ne è uscito un confronto vivace che nel complesso delinea i contorni di un campo di ricerca assai ricco, finora trattato solo in modo laterale dagli studi storici e dalle scienze umane. Il volume rispecchia dunque in buona parte gli interventi presentati al convegno, sia pur ampliati e arricchiti. Le tre sezioni del convegno sono state accorpate nelle due parti in cui è suddiviso il libro: la prima relativa ai modelli interpretativi e alle questioni di politica culturale e di public history sollevate dalle rievocazioni, la seconda dedicata a specifici casi di studio.

Ricerche sulle rievocazioni storiche non sono fenomeni nuovi soprattutto in Europa. E l’Italia non fa certamente eccezione. Un importante e noto archivio di documenti storici e folklorici che ha sempre promosso, sin dagli anni della sua fondazione, ricerche sulle tradizioni popolari è per esempio l’Archivio di Etnografia e Storia Orale della Regione Lombardia fondato, negli anni Settanta, da Roberto Leydi. L’archivio è un punto di riferimento italiano per la raccolta e lo studio di cerimonialità tradizionali che presta particolare attenzione anche ai mutamenti storici delle festività e delle ricorrenze rituali popolari, oltre che “sull’uso” turistico che, di queste cerimonie, viene fatto.

Il contributo originale della ricerca guidata da Fabio Dei e da Caterina di Pasquale, sta però, in particolare, nell’osservare i materiali popolari come si presentano oggi e riflettere come essi possano diventare validi strumenti per la promozione culturale e turistica del territorio e per la valorizzazione della memoria collettiva. La ricerca è stata condotta in Toscana e la scelta non è stata casuale o quantomeno non è scaturita dalla semplice voglia di osservare una kermesse in costume estremamente suggestiva da consentire agli spettatori un tuffo nel passato, proprio come se si viaggiasse in una macchina del tempo. La decisione di calare la ricerca in Toscana è stata dettata soprattutto da caratteri diacronici, essendo una delle regioni italiane in cui oggi la diffusione delle rievocazioni folkloriche è sistematica e capillare in ragione della preesistente presenza di una solida tradizione di feste civiche e di una ideologia ‘medievalista’ che già largamente impiegava il lessico simbolico della rievocazione vivente del passato storico (antichi giochi, sfilate in costume etc.). Su questa base si sono innestatati più di recente altri elementi provenienti piuttosto dalle tradizioni nordeuropee e americane del reenactment e della living history, dando luogo a una gamma di eventi e a una grammatica rituale complessa e composita. Nella ricerca pisana si è inteso appunto documentare tale grammatica, attraverso la schedatura di eventi e soggetti sociali proposta nel sito “rievocareilpassato.cfs.unipi.it”; al tempo stesso, a partire da un dato empirico in cui si aggrovigliano aspetti e dimensioni diverse, si è tentato di dipanare alcune linee interpretative.

Prima di presentare il lavoro, credo sia necessario fare un passo indietro e tentare di delineare un contesto da cui partire per interpretare le spinte motivazionali che hanno sostenuto il lavoro curato da Dei e Di Pasquale. L’obiettivo dello studio sembra rispondere al tentativo di contrastare quell’offerta culturale uniformante, frutto della massificazione della

Il filò. Incontri d’inverno nelle stalle

comunicazione, e custodire, anche a livello istituzionale, il senso dell’identità di una comunità. Aldilà di possibili critiche a tale motivazione, essa consente però di tracciare un breve percorso storico relativo all’interesse di ricerca sulla “cultura popolare”.

Già nel XVII e XVIII secolo esistevano tutta una serie di scritti e di autori interessati ad osservare e a descrivere le «Antiquitates» (per esempio: Antiquitates Italicae Medii Aevi, del 1738, di Ludovico Antonio Muratori). «Antiquitates» significava essere all’interno di quella particolare visione secondo la quale gli strati più popolari della società riproponevano, nella loro semplicità, delle tradizioni antichissime che si perdevano nella notte dei tempi. All’interno di questo discorso, molti autori che raccoglievano, tra il 1600 e il 1700, le «Antiquitates» avevano una netta finalità politica e religiosa; in particolare nel 1600, le cerimonialità popolari venivano raccontate come superstizioni del volgo che rimandavano a superstizioni pagane che i Gesuiti, con il lavoro di evangelizzazione che coinvolse tutta Europa, e l’Italia in particolare, volevano debellare. L’opera di evangelizzazione, già iniziata nel Medioevo, ebbe una seconda ondata con la Controriforma; ed è proprio in quel periodo che gli eruditi iniziarono a raccogliere le tradizioni popolari con lo scopo di eliminare tracce di paganesimo soprattutto nelle campagne.

Un passaggio decisivo in relazione allo studio della cultura popolare, avvenne alla fine del XVIII secolo, all’interno di quel vasto movimento culturale europeo meglio noto come “Romanticismo”. Alla fine del 1700 e soprattutto durante il 1800 venne a costituirsi sia la definizione ufficiale di “folklore”, sia una diversa considerazione culturale del concetto di “popolo”. Se da un lato, nel 1846 William John Thoms definì “folklore” (dall’equivalente tedesco Volkskunde) come “sapere del popolo” – che comprende lo studio delle sopravvivenze del passato (tradizioni, proverbi, racconti, canti popolari) – dall’altro proprio il concetto di “popolo” divenne un fondamentale punto di riferimento politico per la rivendicazione dei territori ad esso corrispondenti; da qui nacque insomma il nuovo concetto di “nazione”. E, all’inizio dell’Ottocento, la ricerca sulle tradizioni popolari conobbe una grande diffusione soprattutto in Germania, con lo scopo esplicito di ricostruire l’identità del popolo tedesco, politicamente diviso. In quel periodo, ma anche nel secolo successivo, venne inoltre esplicitato un rinnovato uso simbolico degli oggetti, come per esempio le maschere, a cui venivano attribuiti, anche per scopi politici, determinati poteri. Basti pensare a Guglielmo II quando, nel 1900, per attestare la pretesa continuità del suo Impero con quello di Roma, pose la prima pietra della fortezza “romana” di Saalburg; tutti i presenti erano vestiti da antichi romani, tranne il Kaiser, a cui come maschera bastava il potere. Questa cerimonia in costume è un esempio di living history, ossia un fenomeno largamente diffuso nell’età del nazionalismo romantico, in cui i nuovi Stati nazionali, per consolidare il proprio potere, tendevano a presentarsi come il risultato di un lungo processo storico (Melotti, 2014: 186).

Tornando al XIX secolo, per quanto riguarda la produzione letteraria, tra il 1806 e il 1808, Ludwig Achim von Arnim (1781-1831) e Clemens Brentano (1778-1842) pubblicarono una raccolta di canti popolari, Il corno magico del fanciullo (1805), in cui venne usato per la prima volta il termine Volkskunde, che conobbe una buona diffusione nell’ambiente romantico. Un contributo di primo piano negli studi del folklore di inizio Ottocento venne –  come è noto – dai fratelli Grimm, Jacob L. K. Grimm (1785-1863), professore di lettere e filologia all’università di Gottiga, e Wilhelm Karl Grimm (1786-1859), scrittore. Tra il 1812 e il 1822 essi pubblicarono la monumentale raccolta di fiabe con lo scopo di documentare la cultura e le tradizioni popolari. Molte delle fiabe che avevano un contenuto sessuale e cruento, com’era tipico della tradizione popolare, vennero successivamente rimaneggiate, diventando parte importante della letteratura per l’infanzia. Anche la poesia popolare era oggetto di ricerca da parte dei romantici che trovavano in essa, oltre alle radici della identità nazionale, anche quell’atteggiamento “ingenuo” che legava l’uomo al mondo naturale (Ruffaldi et. al, 2008).

L’origine dello studio delle tradizioni popolari deve inoltre essere inserito nel quadro più ampio della rivoluzione industriale di fine Settecento e dell’Ottocento e, considerato come reazione al mondo dell’industria, mirava a restituire un’immagine dell’uomo più genuina ed autentica. Contemporaneamente, questa visione, fornì però figure di soggetti senza storia e dalle voci uniformi. Dal punto di vista metodologico tutti i prodotti culturali del popolo cominciarono ad essere considerati, dagli studiosi dell’epoca, come forme di produzione collettiva spontanea, senza alcun autore specifico. E questo punto di vista metodologico apparteneva proprio a quegli intellettuali borghesi che sceglievano di “appartenere al popolo” in contrapposizione all’intellettualità delle culture dominanti del tempo.

Il Romanticismo italiano aveva un filone molto più filologico rispetto alla tradizione di studi europea, forse per una propensione più realistica verso le condizioni della popolazione del Settecento e Ottocento. Contemporaneamente però, anche in contesto italiano, l’Ottocento forgiò eroi leggendari, come Arminio e Spartaco, che divennero personaggi mascherati simboleggianti il potere e il contropotere. In Italia, anche le celebrazioni in costume del Natale di Roma, iniziate con un carattere quasi carnevalesco, acquisirono presto una valenza politica. L’immagine dell’Antica Roma fu sfruttata poi anche dal fascismo per plasmare come in un calco celebrativo quella del regime. Oggi laliving history è sempre più diffusa anche come attività di edutainment e richiamo turistico (Melotti, 2014: 187).

Tuttavia, in un panorama così ricco e variegato e dalla storia così lunga, le occasioni di vero dibattito sono state, e sono tuttora, piuttosto rare. Il momento forse più radicale – afferma Pietro Clemente (in Clemente-Mugnaini, 2001) –  fu quello della grande mutazione antropologica italiana tra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, ossia gli anni in cui l’idealismo discusse le prospettive gramsciane e più in generale quelle marxiste e queste ultime dialogarono, successivamente e talvolta aspramente, con le eredità idealiste. Per assistere ad un confronto altrettanto significativo tra studiosi e tra prospettive teoriche, bisogna tornare però molto più indietro, all’inizio del Novecento. Precisamente all’epoca in cui Lamberto Loria e Aldobrandino Mochi coniarono la denominazione di “etnografia italiana” e fondarono l’omonimo Museo, stimolando la discussione, tra i maggiori studiosi dell’epoca, attorno ai criteri e ai princìpi da seguire per la sua realizzazione. Era il 1911 e lo scenario fu quello del famoso Congresso di Etnografia Italiana di Roma, quando un’intera comunità scientifica si trovò a contendere e a dover scegliere tra i vecchi e ancora dominanti quadri evoluzionistici da un lato e le nuove correnti storico-geografiche dall’altro, con qualche significativa comparsa delle prime prospettive funzionalistiche.

 

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