Condizionata da «un’indigena ritrosia» (J.G. Carrier, 1995) l’antropologia non si è occupata a lungo dei beni in commercio oppure, nel farlo, li ha colti soprattutto dal momento in cui essi smettono di presentarsi come delle merci, per apparire piuttosto come possessi (J. G. Carrier, 1990) o aspetti della cultura materiale (D. Miller, 2001). Le relazioni personali e istituzionali che rendono socialmente accessibile la merce sono invece rimaste sostanzialmente esterne al campo disciplinare antropologico e di conseguenza gli spazi di vendita appaiono tutt’ora agli antropologi come culturalmente opachi.
L’atteggiamento verso il ruolo sociale ed economico degli oggetti è mutato soprattutto per l’influenza delle riflessioni di antropologi (M. Douglas, C. Campbell, D. Miller, I. Kopytoff) e studiosi della società dei consumi formatisi sui libri di Jean Baudrillard. Secondo questi studiosi, nel funzionamento dei fenomeni sociali, gli oggetti agiscono come soggetti capaci di contribuire alla produzione della realtà. Sono cioè in grado di modificare, con la loro presenza, lo stesso sistema delle interazioni umane.
Nonostante nuove linee di ricerca sulla cultura materiale in senso lato e sull’esperienza d’acquisto di un oggetto o la percezione culturale di un brand in senso stretto, il dibattito antropologico e filosofico tende ancora a considerare l’essere umano e gli oggetti che lo circondano come elementi distinti e antitetici. Si è detto altrove in questo blog che la dicotomia più profonda di tale dibattito è considerare l’essere umano da una parte, il cui valore più importante è non essere una cosa, e la cosa dall’altra, intesa come elemento inerte e privo di sostanza vitale che paradossalmente può durare più delle persone.
Alcuni studiosi distinguono il concetto di «cosa» dal concetto di «oggetto». Remo Bodei afferma per esempio che il termine italiano «cosa» è la contrazione del latino «causa» e riguarda l’essenziale ossia «ciò che riteniamo talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua difesa» (R. Bodei, 2009: 12). Concettualmente, la «cosa» è l’equivalente del greco «pragma», del latino «res» e del tedesco «Sache» che, dall’espressione hegeliana «die Sache selbst», giunge fino al motto di Husserl «Zu den Sachen selbst!», quale invito a tornare alle «cose stesse» (R. Bodei, 2009: 14). Quando l’Io presta voce alla sostanza, quando si apre alla realtà effettuale e vuole farla parlare, allora l’«oggetto» si trasforma in «cosa», interrompendo la sua contrapposizione netta al soggetto creando con quest’ultimo una trama di complesse relazioni.
Già negli anni Trenta Marcel Mauss affrontava il problema del rapporto tra uomo e manipolazione della materia. In particolare, affermava Mauss, lo studio dei gesti tecnici, delle abilità e dei più articolati processi tecnologici tradizionali dovrebbe essere considerato parte integrante dello studio delle relazioni sociali e dei sistemi nativi di significato che passano sotto il nome di cultura. In altri termini, disarticolare il rapporto esistente tra fra ciò che gli esseri umani sono e ciò che gli esseri umano fanno, è un’operazione che presenta delle implicazioni teoriche di assoluta rilevanza, pertinenti alla formulazione del concetto stesso di cultura e delle teorie sul suo emergere nel processo di filogenesi. È proprio a partire da un accurato studio del ruolo svolto dalle mani, dedite a manipolare e costruire il mondo esterno – avendo liberato la bocca dalla funzione prensile come effetto principale della stazione eretta – che la cosiddetta «teoria interattiva dell’ominazione» ha potuto dimostrare come la cultura non sia intervenuta a uomo biologicamente compiuto, bensì come – attraverso le fasi di homo habilis, erectus e poi sapiens – si sia inserita direttamente nell’evoluzione organica in quanto elemento imprescindibile per produrre l’uomo quale è attualmente (Ligi, 2007: 14).
Corpo umano e materia si plasmano reciprocamente. L’ominazione si appoggia su un corpo a corpo con materie, oggetti e altri soggetti. Non si può pensare che gli esseri umani siano equipaggiati di un cervello pensante che li collocherebbe al di sopra delle cose, a differenza degli animali non umani che sarebbero immersi nella materia. Occorre affermare il contrario, ossia che l’ominazione si gioca in una dialettica sempre più serrata fra cultura materiale ed elaborazioni fisiche.
La netta separazione che si tende a fare tra essere umano e oggetti è una finzione filosofico-scientifica radicata nella classica dicotomia mente/corpo in quanto, per dirla con Scheper-Hughes (2000), nella vita reale noi siamo «corpi pensanti» (mindful bodies). Ed è proprio l’idea di corpo pensante che permette di concepire in modo più adeguato i processi di acquisizione e naturalizzazione dei saperi tecnici, delle performance e delle abilità nel manipolare la materia che ci circonda. Si dice cioè che certe dinamiche sociali, certe gerarchie di valori, o norme sociali, certe concezioni native di persona o di umanità, sono così efficaci e permeano così profondamente una data cultura, perché non solo sono strettamente correlate e interconnesse con il tessuto sociale (embedded), ma soprattutto perché vengono incorporate (embodied) dai singoli individui. La definizione di incorporazione data da Andrew Strathern e Pamela Steward (1998: 273) è chiara: «nel suo senso più ampio, utilizziamo il termine “incorporazione” per riferirci alla fissazione di certi valori e disposizioni sociali nel corpo e per mezzo del corpo». Ciò vale sia nei casi relativamente semplici in cui è un sapere tecnico a venir incorporato e tradotto in schemi di azione esperta (preparare la colazione, tagliare un pino, ecc.), sia nei casi più complessi in cui si incorporano forme di conoscenza e rappresentazioni del mondo assai più elaborate (sistemi di valori, modelli di valutazione estetica, concezioni di genere, ecc.), che però producono ugualmente comportamenti concreti e pratiche sociali osservabili, all’interno delle quali agiscono anche gli oggetti. Essi si introducono nelle relazioni umane tessendo con esse valori, norme, linguaggi, comportamenti e movimenti di parti del corpo. Basti pensare a oggetti d’uso quotidiano come gli smartphone, che non sono solo estensione del corpo ma condizionano movimenti, comportamenti e scelte delle persone.
L’oggetto ha anche la capacità di creare miti, leggende, racconti ma anche discorsi commerciali. Si pensi ad esempio alle storyboards Kambot della Papua Nuova Guinea. A seguito dell’invasiva colonizzazione e della forzata conversione al cattolicesimo nella seconda metà del XIX secolo, nel giro di cinquant’anni, i nativi si trovarono quasi del tutto deculturalizzati. Dagli anni Settanta del Novecento iniziò però un processo di alfabetizzazione e di rivitalizzazione. Le storyboards Kambot sono quindi il maggior prodotto nativo dell’era postcoloniale. Rifunzionalizzando l’arte tradizionale, le storyboards sono tavole di legno, facilmente trasportabili, incise e dipinte con raffigurazioni di scene di vita quotidiana che hanno acquisito valore, non solo economico, grazie all’incontro con il turismo occidentale. Se da un lato quindi i turisti cominciarono a creare immagini, attraverso questi oggetti, dell’essenza della cultura nativa, dell’idilliaco primitivismo immerso nella natura, è chiaro che questi oggetti destinati ai turisti, testimoniano che l’autenticità non è un sogno di un ritorno alle origini, ma un discorso che rilancia la cultura papua odierna nel flusso dei contatti con l’Occidente. Il valore delle storyboards non è però biunivoco. Secondo l’interpretazione di quanti hanno studiato le storyboards e il contesto simbolico della loro produzione, queste opere sarebbero veicolo dell’immagine del paese all’estero, un mezzo con cui i papua esportano la propria identità. Le storyboards sarebbero ciò che consente ai papua di mettere in contatto l’interno (la loro società) con l’esterno (il mondo). Qualcosa che risponde alle idee e alle aspettative reciproche di turisti e di artisti nativi. Esse sono ciò che promuove l’incontro fra due realtà: quella locale e le forze globali che percorrono il mondo contemporaneo.
Un elemento inconfondibile delle storyboards è costituito dalla natura e dalla grammatica profana delle scene che vi sono rappresentate. Anche quando si tratta di miti, questi sono raffigurati secondo una tecnica iconografica di tipo realistico e non altamente simbolico e stilizzato come avviene invece nell’arte tradizionale. Questo perché i turisti, e più in generale i «non-papua», non capirebbero il significato dei disegni. Mentre le raffigurazioni mitiche erano astratte ed evocative, quelle delle storyboards possiedono un linguaggio visivo realistico (U. Fabietti, R. Malighetti, V. Matera, 2000).
Riprendendo un altro esempio dall’arte tribale, una delle ragioni dell’inglobamento degli oggetti «esotici» nel sistema estetico occidentale fu il mercato dell’arte. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento gli objets sauvages raccolti dagli artisti parigini costavano pochi soldi. Tuttavia, nel corso dei decenni successivi, e soprattutto negli ultimi anni del Novecento, molti di questi pezzi raggiunsero cifre ragguardevoli. Cosa era accaduto? Era successo semplicemente che l’arte «tribale», «primitiva» o «etnica», aveva cominciato ad avere un proprio mercato. Gli oggetti «esotici» cominciarono a fare il proprio ingresso sul mercato perché erano richiesti inizialmente dai musei etnografici. Parallelamente però si sviluppò un mercato privato che andò sempre più affermandosi con il moltiplicarsi delle mostre, dei collezionisti, dei galleristi e delle riviste specializzate.
Ciò che determina il valore economico di una maschera kwakiutl, di una scultura yoruba o di una tavola abelam è il fatto che questi oggetti possano essere legittimamente giudicati «arte». A loro volta però questi pezzi vengono considerati «artistici» perché hanno un valore, perché possono cioè entrare nel «mercato dell’arte». Se ne può dedurre che, in generale, valutazioni estetiche e valutazioni economiche legate anche alla rarità del pezzo, interagiscano tra loro nel determinare la considerazione di un oggetto in quanto «opera d’arte» o meno. Nella determinazione di un certo oggetto come «opera d’arte» entrano, nella nostra tradizione, coppie di nozioni come autentico/inautentico, capolavoro/artefatto, originale/seriale ecc. che consentono di operare spostamenti da un ambito all’altro, di far diventare cioè un qualunque prodotto dell’arte turistica (seriale e inautentica) un oggetto apprezzabile come espressione creativa di una cultura autentica e quindi definibile come «opera d’arte» di un certo valore.
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