Era l’anno accademico 2004/2005 quando frequentai il corso di Etnoscienza della professoressa, divenuta poi una grande amica, Lidia Beduschi all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il corso si intitolava “I colori del buio”. È stato uno dei corsi più formativi che abbia seguito in tutta la mia vita, non solo all’università. Le lezioni volevano indagare la convinzione diffusa nella cultura occidentale che l’idea del colore è un concetto astratto. La smentita, sostenuta già nel post precedente, parte dalla conferma che la percezione del colore si struttura da dati esperienziali, emozionali, mnestici anche per le persone normovedenti. Partendo da questo dato si è giunti ad affermare l’inesistenza di una sostanziale differenza tra le modalità che costruiscono l’inventario culturale dei colori tra i vedenti e i non vedenti, la cui matrice comune è la sinestesia (dal greco “syn” = “unione” e “aisthesis” = “sensazione”, ossia “percepire insieme”; tra i numerosi siti che se ne occupano vedere: https://it.wikipedia.org/wiki/Neuroscienze; https://it.wikipedia.org/wiki/Sinestesia_(psicologia); http://www.odorisuonicolori.it/files/file/sdarticle.pdf ). Ed è proprio dalla sinestesia che Lidia Beduschi ha costruito, assieme ad un gruppo di non vedenti primari e secondari, un codice sinestetico dei colori condiviso.
Partiamo da un dato scontato ed evidente: i non vedenti dalla nascita non possono percepire fisicamente il colore. Se ci atteniamo ad una descrizione puramente fisiologica e biologica possiamo dire che la percezione del colore non è altro che la capacità del sistema oculo-cerebrale di decodificare una particolare lunghezza d’onda, che viene poi definita e classificata secondo la categoria di un determinato colore, al quale viene assegnata un’etichetta verbale e linguistica, in modo da poter essere condiviso e riconosciuto da tutti i parlanti “vedenti”.
Spesso i vedenti credono che i ciechi abbiamo una maggiore sensibilità al tatto, ma non è vero o non è sempre così. Mancando la vista, ossia il senso che permette di avere un quadro generale a tre dimensioni della realtà, i non vedenti possono fare esperienza delle percezioni a loro negate trasferendole in altri campi sensoriali. Un cieco può scorgere l’idea di un colore se lo si descrive. L’azzurro per esempio può essere spiegato come colore vivace ma nello stesso tempo rilassante e lo si può abbinare al suono del mare e alla percezione dell’acqua. Il cieco può quindi abbinare il colore alla sensazione che ha attraversato gli altri sensi.
Ricordo un esempio che Lidia Beduschi fece durante una lezione. La professoressa descrisse l’esperienza di una sua informatrice cieca dalla nascita a causa di una malformazione retinica fetale che, anni fa, collaborò con una ricercatrice dell’università di Bologna per la quale doveva registrare i sogni, appena sveglia ogni mattina, analizzandoli sulla base di un questionario che le era stato fornito. L’esperimento aveva durata di due settimane. Tra i ricordi onirici strappati alla memoria notturna dell’informatrice non figurava alcun elemento cromatico, dato che non aveva mai avuto una percezione visiva del colore. Tuttavia in un sogno l’informatrice descrisse che imbrattava un cartellone con dei colori a dita; la ragazza ne sentiva l’odore dolciastro e pungente, la consistenza sui polpastrelli, l’effetto di porosità lasciato dalla pasta colorata sulla carta. Il sogno le suscitava sensazioni di grande libertà, collegate all’esperienza infantile. Attorno a lei c’era un gruppo di bambini vocianti, il cartellone era steso sul pavimento, la situazione era ludica e priva di inibizioni. Non ricordava certamente quali tinte stesse usando, forse perché non riconoscendole nella vita reale, non poteva trasferire a livello onirico i contenuti di questa mancata esperienza.
Sulla base di quanto detto si possono fare alcune considerazioni. Diciamo innanzitutto che anche i non vedenti primari hanno a che fare con i colori fin dall’infanzia. L’integrazione scolastica mette a contatto il bambino non vedente, già dalla scuola materna, con compagni normovedenti che amano e usano i colori per disegnare, per descrivere il mondo e sé stessi, per effettuare paragoni poetici e ludici. Il mondo dei bambini è molto colorato. Affinché il colore non rappresenti l’ennesima barriera mentale e linguistica che si frappone alla comunicazione con i compagni vedenti, il bambino cieco dalla nascita deve presto acquisire familiarità con questo illustre sconosciuto. Crescendo verrà a contatto con i colori leggendo testi letterari, imparando a scegliersi i vestiti, utilizzando espressioni metaforiche come “sono rosso di vergogna” o “verde di rabbia”.
Presso i centri tiflotecnici sono disponibili apparecchi chiamati colour test; essi sono dotati di una piccola telecamera e di una voce sintetica. Una volta appoggiati ad un tessuto o ad altre superfici colorate, questi strumenti ne vocalizzano il colore. In tal modo è possibile per esempio conoscere la tinta della maglietta che si intende indossare al mattino. Questi apparecchi, in realtà molto utili nella vita pratica, non entrano però nel merito, né pretendono di farlo, del rapporto del non vedente primario con il colore. Riconoscere in modo meccanicistico le tinte di una stoffa, sapere che il sole è rosso al tramonto, sciorinare tutto lo spettro dei colori primari e secondari, rischia di essere un esercizio estrinseco, un’ulteriore incombenza che il non vedente deve sobbarcarsi per adattarsi ad una realtà che presenta molte opacità e zone ignote. Infatti, mentre al vedente il mondo viene incontro, le cose note lo rassicurano e quelle ignote lo incuriosiscono, per il non vedente vi è un limite di oscura e confusa indeterminatezza prima di entrare in rapporto con le cose, anche le più familiari.
Il colore può però essere però a poco a poco interiorizzato anche dai non vedenti entrando a far parte del loro vissuto. Per esempio, a seconda del colore degli occhi o dei capelli e delle caratteristiche fisiche, le persone scelgono quali abiti ed accessori indossare. In rapporto ai non vedenti, la ricorrenza statistica dei giudizi formulati dai vedenti può essere un utile indicatore a tal proposito: si configura infatti come un elemento che concorre all’apprendimento per imitazione. Molti ciechi intervistati da Lidia Beduschi raccontavano per esempio: “l’azzurro ti dona” e quindi avvertivano la necessità di conferire un significato psicologico, prima che descrittivo, a questa affermazione. L’identità si struttura anche a partire dal riconoscimento altrui e dalle mode, ma rappresenta, anche nei suoi tratti esteriori, una forma di vissuto totalmente personale. Ecco perché determinati colori per molti intervistati non rimanevano degli elementi astratti, ma nell’indossarli pensavano di emanare un senso di benessere e di armonia.
Secondo il filosofo Wittgenstein, un cieco può tranquillamente parlare di ciò che non vede, senza essere considerato un illuso, un superstizioso o un sognatore. Scrive infatti Wittgenstein: «Un cieco può dire che è cieco e che le persone intorno a lui vedono. “Sì, ma allora con le parole “cieco” e “vedente” non intende qualcosa di diverso da quello che intende chi vede?” Su che cosa si basa il fatto che si voglia dire una cosa del genere? Ebbene, se uno non sapesse che aspetto ha un leopardo potrebbe tuttavia dire e capire “Questo posto è molto pericoloso, qui ci sono leopardi”». Il linguaggio permette dunque a tutti noi, ciechi e vedenti, di conoscere ciò che non possiamo “toccare con mano”, diventa un surrogato eccezionale e sorprendente dell’esperienza diretta, senza che si configuri come astratto e privo di senso. Il canale visivo rimane prioritario per la percezione del colore, ma quest’ultimo, oltre a non essere esiliato dal mondo dei non vedenti, può anche acquistare una valenza inedita quando i ciechi ne parlano, senza per questo perdere le connotazioni di fondo usate comunemente dai vedenti per definirlo.
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