Se l’etica neoliberista non si limita ai confini dell’impresa, non è solo perché il successo nella carriera si confonde con il successo nella vita, ma anche soprattutto perché il management moderno cerca di arruolare soggettività, servendosi di controlli e valutazioni della personalità. La vita all’interno dell’impresa è oggi considerata in sé stessa una formazione, il luogo di acquisizione di un sapere pratico, il che spiega perché politici ed economisti insistano sulla partecipazione di tutti alla vita dell’impresa sin dalla più giovane età, creando pure scuole specializzate (spesso private e costosissime) impostate unicamente su questa prospettiva. Aubrey afferma infatti che l’impresa costituisce un percorso educativo che legittima coloro che vi si realizzano, così che i manager possono essere considerati “come l’equivalente dei saggi o dei maestri”. La cultura dell’identificazione del soggetto con l’impresa implica un’ascesa della prestazione, che costituisce un mercato, sotto varie forme, in piena espansione. Svariate tecniche di meditazione occidentalizzate, il coaching, la programmazione neurolinguistica, l’analisi transazionale e altri svariati procedimenti legati ad una “scuola” o ad un guru, mirano ad incrementare la padronanza di sé, delle emozioni, dello stress, delle relazioni con gli altri (clienti, collaboratori, capi, subordinati). Tutte si propongono di potenziare l’io, di renderlo più adattabile alla realtà, più operativo nelle situazioni difficili (per un’analisi critica delle prestazioni del coaching, in particolare nel campo della sanità, R. Gori, P. Le Coz, L’Empire des coachs. Une nouvelle forme de contrôle sociale, Albin Michel, Paris, 2006). Esse si presentano come scienze o metodologie psicologiche o di supporto vario, con un lessico specialistico, autori e strumenti di riferimento, gerarchie di tecnici, modalità di argomentazione di tenore empirico e razionale. Ma ciò che preme sottolineare è che si tratta di tecniche di controllo di sé e degli altri, ossia di tecniche di governabilità volte ad accrescere l’efficienza delle relazioni con il prossimo. Tali metodi sono strettamente legati alle esigenze della prestazione individuale che passa per la forza di persuasione. Le procedure proposte sono pragmatiche, si pongono cioè, secondo i termini della vulgata, in un’ottica di problem solving. Non puntano tanto a spiegare e a far capire il perché, quanto a presentare il “come funziona”.
Queste tecniche di governabilità, questi “manager dell’anima” trovano nel mondo professionale il loro campo di applicazione più vasto e senza dubbio più lucrativo in cui l’insegnamento alla padronanza di sé, come sorta di compensazione all’impossibilità di controllare il mondo, è il loro prodotto più vendibile.
La mia idea di un nuovo etnoumanesimo critico si basa su tutt’altra prospettiva. Ritengo derivi da un’eredità della concezione di fare antropologia (nel mio caso, ma anche ricerca in generale) come la intendeva Ernesto de Martino: ossia una scoperta ed un utilizzo del sapere come impegno sociale, culturale, politico ed economico; un bisogno di una migliore conoscenza del presente da trasformare (cfr. E. de Martino, Promesse e minacce dell’etnologia, in Id., Furore, simbolo, valore (1962), Feltrinelli, Milano, 1980).
Il termine “etno” fa riferimento a due concetti demartiniani: umanesimo etnografico, ossia la presa di coscienza e la problematizzazione della propria realtà, grazie all’incontro e alla misurazione con altri modi di essere uomini in società (E. de Martino, La fine del mondo, contributo all’analisi delle Apocalissi Culturali, Einaudi, 2002, Torino); ed etnocentrismo critico, ossia l’essere consapevoli dell’impossibilità di rinunciare all’impiego delle proprie categorie conoscitive che sono storicamente personali, in quanto sono fornite dalla società di appartenenza e, aggiungo, date dalla propria esperienza soggettiva pur nella condivisione di modelli culturali simili.
Credo che chi è in grado di utilizzare appieno il suo sapere, la sua formazione e la sua esperienza è in grado anche di contribuire a creare un nuovo etnoumanesimo critico costruito sulla presa di coscienza dell’umano, attraverso una riforma delle categorie di osservazione resa possibile con la frequentazione di altri punti di vista. La sinestesia conoscitiva è in grado di chiarire la coscienza storica e di proporre e produrre soluzioni valide per costruire la nostra storia.
Rispondi