«Il sentiero serpeggia attraverso un paesaggio bellissimo – la landa bruna, disseminata qua e là di pini e betulle con chiazze di sabbia gialla, e la montagna in lontananza, contro il sole. Più che di un quadro, si tratta di un’ispirazione» (Van Gogh, 26 agosto 1876).
Le parole di Vincent Van Gogh in una lettera al fratello Theo (Cescon, 2016), racchiudono alcuni tratti fondamentali di future riflessioni negli studi di antropologia dello spazio. La sensibile acutezza dell’artista coglie esattamente un aspetto essenziale che successivi approcci analitici hanno mostrato.

Unendosi alla chiara visione di Van Gogh, gli antropologi hanno, nel corso del tempo, affermato che la natura dei luoghi è tale per cui una strada, una scuola, una città, un terreno coltivato, un bosco, non sono mai solo degli elementi spaziali che hanno effetti sociali, ma al contrario sono fatti sociali formati nello spazio. Le persone non si muovono fra luoghi concepiti come punti geometrici di uno spazio astratto, che rimane indefinito e neutro rispetto alle vicende felici e dolorose della loro vita. In modi più o meno consapevoli, a volte effimeri e fugaci, a volte intensi e indimenticabili, ogni luogo che attraversiamo diventa un nodo significativo in quella rete complessa di microesperienze che è la nostra vita (Ligi, 2011). Come ha scritto Tim Ingold: “places do not locations, but histories” (Ingold 2000: 219). Infatti, gli elementi caratteristici di un paesaggio, come per esempio la vastità, il vento, il buio e la luce, vengono non solo percepiti dagli esseri umani ma anche raccontati e talvolta mitizzati. Inoltre, l’ambiente, il territorio, e più in generale lo spazio, possono entrare direttamente nelle retoriche politiche e religiose, oltre che essere usati come orientamenti etici, come rappresentazioni di valori, come concezioni del mondo e della natura. Al contempo, forme di vita e di cultura che hanno abitato e che abitano specifici luoghi, hanno concretamente inciso lo spazio, nel loro divenire storico, modificandolo e trasformandolo sulla base di orientamenti di valore, di credenze tradizionali e sistemi economici. Tutte queste complesse dinamiche culturali hanno sempre avuto un ruolo determinante nel costruire il senso dei luoghi (Ligi, 2016: 189).

Il termine “paesaggio” è una parola colta che nasce in epoca moderna e in terra fiamminga. Come afferma Gian Luigi Beccaria, la parola compare per la prima volta nella lingua olandese del Quattrocento con Landskap, poi in tedesco con Landschaft e in inglese landscape per significare una forma della terra, definizione letterale che mette in luce il nesso con il “formare”, il plasmare, il modificare, il lasciare tracce e segni di umanità sull’ambiente naturale. Le lingue neolatine attingono invece a “paese”. La prima attestazione del francese paysage è del 1493, mentre con la parola italiana paesaggio siamo in pieno Rinascimento con l’intestazione di Tiziano Vecellio nel 1552 (Bertone, 2000). Ed è proprio in questo periodo che si innesta la concezione estetica e pittorica di paesaggio legata anche alla nascita della prospettiva.

Intuitivamente il paesaggio, attraverso una concezione ormai entrata nell’uso comune, è una sorta di veduta, cioè un’immagine percepita di una porzione di ambiente naturale, di una superficie terrestre, che si può abbracciare con lo sguardo da parte di uno spettatore (Ligi, 2016: 190). Ciò implica che il sentimento dell’osservatore che percepisce l’immagine non è mai indifferente. Affiora pertanto, in questa prima concezione, il tema che l’ambiente diventa paesaggio soltanto quando riceve un’impressione emotiva.
In una seconda fase il concetto di paesaggio si libera dall’idea di veduta e diventa una sintesi coerente di vedute possibili. Quest’ultimo concetto di paesaggio, più complesso del precedente, è per esempio alla base di espressioni come “paesaggio dolomitico”, o “paesaggio lagunare” oppure “paesaggio della campagna romana” (Ligi, 2016: 190). In questi casi il riferimento è verso un’articolata sequenza di possibili immagini associate, parzialmente diverse le une dalle altre, in cui però si ripetono alcuni elementi fondamentali che ricorrono, legati in una costante e caratteristica coordinazione. Questo è il caso per esempio del concetto ampio di “paesaggio geografico”.
La prima e la seconda concezione di paesaggio, le quali risultano essere interdipendenti, esprimono entrambe manifestazioni visibili dell’ambiente. Esistono però molti fenomeni non visibili e non avvertibili immediatamente dai sensi che tuttavia contribuiscono a determinare ciò che di un paesaggio si manifesta in seguito alla vista, come ad esempio i fenomeni climatici sul mantello vegetale, oppure l’idrologia sulle forme del suolo (Ligi, 2016: 191). Ancora più invisibili sono i fenomeni di tipo socio-economico che plasmano il visibile di un paesaggio, come la dispersione delle case rurali o il loro concentramento a costituire grossi agglomerati urbani, oppure miniere ed insediamenti minerari nelle parti più alte delle montagne in prossimità del giacimento che stanno comunque in rapporto con strutture differenti della società e con altre forme economiche. Questi fattori devono essere ricompresi in una terza concezione di paesaggio, che è appunto quella utilizzata dalle scienze sociali e da alcune branche della geografia, in cui diventa fondamentale non soltanto il rapporto con l’osservatore senziente e con un’impressione emotiva del paesaggio, ma anche con una complessa serie di pratiche sociali, economiche, politiche che innestano direttamente l’azione antropica nell’ambiente. Studi importanti (uno di questi è per es. Vallerani, 2013), hanno infatti sostenuto che, dal primo dilatarsi delle culture urbane soprattutto in area mediterranea, è andata delineandosi una chiara dicotomia tra il vivere accentrato in siti particolarmente favoriti da posizione geografica e caratteristiche morfologiche ed il loro contorno ambientale, da sempre destinato al sostentamento dell’organismo cittadino (Vallerani, 2013: 252). A queste diverse vocazioni territoriali sono corrisposte specifiche competenze operative che a lungo andare hanno sedimentato non solo una proficua simbiosi tra urbano e rurale, ma anche il crescente diversificarsi di ambiti operativi e intersecazioni funzionali che hanno trovato ampio riscontro nell’evoluzione della storia della cultura e nella conseguente costruzione di processi di rappresentazione simbolica (Cosgrove, 1990).
Il paesaggio quindi non è semplicemente un luogo isolato dallo sguardo, ma è un ritaglio ricco di significato. Yi-Fu Tuan ha sottolineato così la differenza tra paesaggio e ambiente: «l’ambiente è un dato, un frammento di realtà che è semplicemente là, opposto al paesaggio, che è invece un prodotto della cognizione umana, una conquista della mente matura» (Tuan, 1974: 90).
Le conoscenze e le pratiche legate alla percezione del paesaggio, derivano da una secolare codificazione di quella che Ingold ha definito “enviromental situated experience”. Questo particolare genere di esperienza dello spazio e di tutti i suoi elementi, come il tempo atmosferico ed i mutamenti stagionali del paesaggio, ma anche lo spazio esperito da determinate professioni (come per es. i lavoratori nelle miniere o negli offshore petroliferi), vengono quindi incorporati attraverso altri tipi di esperienze individuali più profonde, in cui giocano fattori di genere, di età e di expertise che riemergono in storie di vita, in memorie infantili o in aneddoti personali. Alcune di queste storie vengono raccontate e circolano nella comunità, prestandosi anche ad essere condivise, plasmate e tramandate come prodotti socialmente costruiti. Un ricco patrimonio di saperi e di percezioni tramandati e trasformati in un corpus di canti e di leggende è per esempio quella della “cultura di miniera”. Come ho avuto modo di osservare ed analizzare personalmente, la percezione che il minatore ha del suo ambiente lavorativo, fa in modo che la miniera corrisponda sia al contesto in cui avviene la trasmissione e la negoziazione dei saperi pratici, sia ad un paesaggio sacro, accessibile solo ai minatori (nelle Alpi, per esempio, era vietata l’entrata in miniera delle donne; si raccontava portasse sfortuna), in cui dimorano figure protettrici alle quali solo i lavoratori possono rivolgersi. La miniera quindi, come si può leggere anche nei testi dei canti e delle leggende, diventa per i lavoratori il luogo privilegiato di accostamento tra gli uomini ed una particolare forma professional-poietica del divino. In particolare, in molti canti, diffusi un tempo nell’intero arco alpino, è presente la morbosa voglia di riconciliazione tra il minatore e la miniera, in quanto per lui il paesaggio esterno non rappresenta il suo mondo simbolico e valoriale (Armano, 2018: 175).

Quanto detto vale anche per i paesaggi urbani, ossia i paesaggi fortemente umanizzati. Peter Berger, in “The Homeless Mind”, un classico degli studi sulla post modernità, mette in luce quanto sia talvolta alienante vivere l’esperienza dello spazio urbano nelle metropoli occidentali fatte di strutture anonime e svincoli, malls, tangenziali, stazioni e motel. Il soggetto moderno, sostiene Berger, possiede un qualcosa di nomade percorrendo questi non-luoghi (Augé, 1993) in modo frenetico e provando un crescente spaesamento. Nel tempo prestissimo della post-modernità, in cui tutto è molteplice, fluido, incerto, il senso dei luoghi non si sedimenta, il vissuto è frammentato. Sostiene infatti Jedlowski: «Differenti momenti giacciono gli uni a fianco agli altri senza che sia possibile (o per lo meno facile) collegarli fra loro» (Jedlowski, 2009: 22). Compaiono così segni di disorientamento e di solitudine, si atrofizza la capacità di riconoscere nella propria vita una trama significativa (Ligi, 2016: 203). Tuttavia il paesaggio urbano è sempre ambivalente; all’indubbia anomia dei luoghi spersonalizzati e inospitali, si accostano spazi di relazione umana, magmatici e creativi. Nel 1915, per esempio, in un celebre saggio apparso nell’American Journal of Sociology, Robert Park che fu, com’è noto, fra i padri ispiratori dell’antropologia urbana, con The City (il volume fondativo scritto nel 1925 con Burgess e McKenzie) parlando di Chicago, che all’epoca era considerata il prototipo della nuova città americana, l’autore affermava che:
«Dal nostro punto di vista, la città è qualcosa di più di una congerie di singoli uomini e di servizi sociali, come strade, edifici, lampioni e via dicendo: essa è qualcosa di più di una semplice costellazione di istituzioni e di strumenti amministrativi, come tribunali, ospedali, scuole, polizia e funzionari di vario tipo. La città è piuttosto uno stato d’animo, un corpo di costumi e di tradizioni, di atteggiamenti e di sentimenti organizzati entro questi costumi e trasmessi mediante questa tradizione. In altre parole, la città non è semplicemente un meccanismo fisico e una costruzione artificiale: essa è coinvolta nei processi vitali della gente che la compone» (Park, Burgess, McKenzie, 1999).
Le città possono inoltre essere considerate come contesti in cui prendono forma e si enfatizzano particolari pratiche di percezione sensoriale da cui scaturiscono speranze ed utopie di città alternative in contrapposizione a quelle esistenti. Italo Calvino per esempio afferma, in “Le città invisibili”, che:

«Credo che non sia solo un’idea atemporale di città quello che il libro evoca, ma che vi si voglia, ora implicita ora esplicita, una discussione sulla città moderna. […] Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana, e “Le città invisibili” sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. […] Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni di un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi» (Calvino, 2016: IX-X).
Le città possono essere “immagini di un immaginario” (riprendendo il titolo del libro di Ilaria Serra, 1997) di un luogo lontano da raggiungere per sfuggire, a sua volta, da un altro luogo percepito ormai inospitale, con valori culturali desueti e privo di speranze. I paesaggi in questo caso implicano anche l’importanza simbolica dello spostamento. Afferma Serra, a proposito della massiccia emigrazione italiana verso gli Stati Uniti avvenuta tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo:

«L’America, proprio per il suo essere sogno più che realtà, immagine variegata e sfumata, non è esclusivamente né Inferno né Paradiso, ma in parte entrambi. […] La partenza è caratterizzata dalla spinta del sogno e dalla speranza nel futuro, ma è bagnata di lacrime di dolore. Il viaggio viene a volte rimosso da ricordi più importanti, a volte presente come trauma iniziatico. […] L’America è insieme sofferenza e fortuna, dolore e felicità, che sono aspetti inscindibili, di volta in volta più o meno evidenziati» (Serra, 1997: 16).
Contemporaneamente nello spostamento da un luogo ad un altro, il valore simbolico del viaggio crea autorappresentazioni ed eterorappresentazioni di persone. Nel caso della figura dell’emigrante italiano negli Stati Uniti nei primi anni del 1900, chi rimane in patria costruisce l’immagine di un individuo emigrato che, assorbito dalle pulsioni e dagli stili di vita di città lontane che risultano addirittura misteriose e fantastiche agli occhi di chi resta, si trasforma da figlio ad estraneo:

«Gli emigrati han dimenticato la patria, perché nel turbine dei grandi centri, han perduto il sentimento di famiglia; son divenuti figli degeneri di questa terra benedetta, ove i loro cuori erano cresciuti all’aura de’ più sacri affetti! […] L’attraversamento dell’oceano – liquido amniotico – diviene un rito di passaggio a nuova vita, lasciando alle spalle il vecchio e portando solo ciò che sta nella valigia e nella memoria. […] L’America è una terra che conquista, una sirena che con il suo canto attira gli uomini per ucciderli al passato, sottraendoli alla vita precedente e alle loro famiglie» (Serra, 1997: 180).
In altre parole è come se per l’emigrato valessero le parole di Franz Kafka secondo cui: “I primi giorni di un europeo in America si possono paragonare alla nascita di un uomo” (Kafka, 1974: 70).
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