Il dibattito antropologico e filosofico tende a considerare l’essere umano e gli oggetti che lo circondano, come elementi distinti ed antitetici. La dicotomia più profonda di tale dibattito è considerare l’uomo da un lato, il cui valore più importante è il non essere cosa, e la cosa dall’altro. Tra le demarcazioni a solido sostegno di questa tesi c’è l’attenzione agli oggetti come forme fisiche che possono durare più dei soggetti. Gli oggetti non ci lasceranno mai, ma saremo noi a lasciarli. Loro non hanno vita, ma paradossalmente sopravvivranno a noi. Gli oggetti trionfano sulla morte, i soggetti no. C’è un’angoscia verso il non vivente che è l’assolutamente altro da me che, esattamente come il divino, non solo non muore mai ma anche non nasce mai ma c’è.
Personalmente, quando parlo di oggetti, non amo utilizzare una dicotomia così netta, anch’essa frutto della nostra storia di pensiero. In realtà le cose non sono solo cose al di fuori di noi, ma arrecano tracce umane, sono prolungamenti dell’uomo e fanno parte dello stesso mondo. Le cose sono importanti per costruire le persone, come anche per decostruirle. La spersonalizzazione comincia dall’espropriazione delle cose (cfr. Primo Levi).
La materia è la sede privilegiata dei simboli tanto che, per esempio, è sempre esistito un rapporto tra sacro e materia. Tutte le religioni si costruiscono manipolando oggetti, fino al punto di scambiare la cosa con ciò che rappresenta. L’idolatria fu infatti una delle più profonde forme di attrito culturale tra il pensiero occidentale e ciò che veniva considerato primitivo, da cui nacque tra l’altro l’espressione “feticcio”, creata dai missionari portoghesi che si avvicinarono alle coste nord occidentali dell’Africa. Qui, colpiti da una forma di credenza contenuta in certi oggetti, coniarono il termine “feticcio” per nominare gli oggetti (spesso antropomorfi) a cui i nativi applicavano un culto e che, per i colonizzatori, era prova di assurdità e quindi di inferiorità. “Feticcio” (in pidgin) venne poi utilizzato anche dalle popolazioni indigene per sottolineare l’estraneità dei colonizzatori nel comprendere la loro visione verso le cose e la materia.
Il primo intellettuale a riflettere sul significato di “feticcio” fu, nella seconda metà del ‘700, Charles de Bross che coniò il termine “feticismo” («Sul culto degli dèi feticci», 1760), che indica qualcosa che non c’è in natura, che è fabbricato dall’uomo, ma che è anche fittizio. Il feticcio è il luogo in cui gli spiriti prendono dimora. Secondo de Bross “feticismo” è un modo di pensare che assegna poteri magico-religiosi alla materia e questo modo di pensare colloca il feticismo al primo posto, quello più primitivo, nella scala evolutiva dell’essere umano.
In realtà anche noi, in occidente, nella vita di tutti i giorni conferiamo un’eccedenza di senso agli oggetti rispetto al loro semplice uso. Ne sentiamo il respiro e catalizziamo su di essi le nostre passioni. L’oggetto ha la capacità di creare racconti, leggende, miti, ma anche feste (si pensi, tra molti oggetti d’uso, alle campane della chiesa per le feste religiose o ai campanacci per produrre rumore durante rituali carnevaleschi).
Anche il marketing si basa su racconti di oggetti e sulla creazione di eccedenze di significato rispetto all’oggetto stesso. Lo stesso Marx ne “Il capitale” (1867), ragiona sul concetto di “feticismo” e sull’eccedenza di senso della merce che, da materia lavorata, diventa oggetto di scambio economico. Diventando merce, ed assumendo particolari sottigliezze metafisiche, cambia il suo status proprio perché aggiunge la caratteristica di meta d’acquisto al puro elemento sensibile. In questo modo l’oggetto acquistato è una forma di allusione a qualcos’altro. La merce nasconde le relazioni e i processi produttivi precedenti e diventa oggetto di passioni, di sogni e per questo ne siamo sedotti. Si tratta quindi, a livello di indagini e di ragionamenti, di porre maggiore attenzione alla sovrasignificazione dell’oggetto in una data cultura.
Lo studio della materia e della tecnologia sono però tra i campi meno sviluppati in antropologia. Ritengo condivisibile infatti l’opinione sostenuta, tra molti, anche da Pier Giorgio Solinas secondo cui:
«La ricerca antropologica vera e propria, sia essa ispirata all’antropologia “sociale” o “culturale”, non ha tenuto un gran che conto la cultura materiale come impegnativa categoria teorica». (Solinas, 1991: 55).
E ancora Tim Ingold dice:
«Nella storia dell’antropologia troviamo due modi distinti di comprendere la relazione tra tecnologia e società: il determinismo tecnologico e il possibilismo tecnologico. Il primo sostiene che le forme istituzionali delle società sono dettate dalle richieste del funzionamento di un sistema tecnologico di una qualche complessità, per cui il mutamento sociale è a sua volta dettato e istigato, anzi dipende dal mutamento tecnologico. Il secondo, il possibilismo tecnologico, sostiene che la tecnologia non esercita alcuna influenza sulla forma della società, se non per il fatto di porre dei limiti esteriori allo spazio d’azione umano». (Ingold, 2001: 142).
Entrambe le posizioni partono però da due premesse che ritengo essenzialmente errate (Ligi, 2003). La prima è una concezione della tecnologia come sistema oggettivo di relazioni del tutto sganciato dall’ambito sociale, a prescindere dal suo effettivo grado di influenza sulla società. La seconda è che si possa misurare la tecnologia in termini di gradi di complessità. È bene mettere in luce come, al contrario, la sfera di capacità e di azione (di manipolazione concreta del mondo esterno), propria ad ogni popolazione umana – ciò che definiamo appunto “tecnologia” – non sia affatto separata dalla compresente sfera delle relazioni sociali e delle idee culturali. Ciò significa che, per esempio, le abitazioni sono fatte di pietre e di terra, di legno e stoppie non meno che di operazioni e categorie dello spirito (Ligi, 2003: 163 – 164). Il principale problema di ricerca sta quindi nel comprendere sempre meglio, a partire da casi concreti, come siano legate queste «operazioni e categorie dello spirito con le pietre, la terra, il legno e le stoppie» (Cuisenier, 1991: 12). Perciò «l’etnologo sul campo non deve accontentarsi di fare parlare la gente; bisogna che impari a far parlare le cose e ad ascoltarle» (Bastide, 1968). Remo Bodei afferma addirittura che gli oggetti, diversamente dai soggetti, non conoscono la menzogna e l’automistificazione. Di solito gli oggetti non dicono: «Sono stato frainteso», tanto che quando ci imbattiamo in un oggetto mal fatto e oscuro ci arrabbiamo come se avessimo a che fare con un testimone reticente.
Christian Bromberg ha sostenuto che «gli oggetti (e i processi tecnici per produrli), come le parole, sono portatori di informazione» e, in funzione del sistema di attese e di abitudini acquisite che ne definiscono culturalmente l’uso, forniscono una serie di indicazioni chiare e radicali. Non solo infatti la lingua è un canale di trasmissione di informazioni, ma anche il cogliere la differenza tra un salotto di un appartamento borghese e quello di una casa rurale, tra gli abiti da cerimonia, da lavoro e da lutto, tra il cibo di carnevale e il cibo di Quaresima: tutto ciò ci fa scoprire il paesaggio sociale che ci circonda, le circostanze segnate dalla cultura di cui siamo partecipi. Sotto questo aspetto gli oggetti fanno parte del dispositivo di inculturazione (Lotman, 1971: 46).
Lo studio dei processi tecnologici dovrebbe quindi essere considerato come parte integrante dello studio delle relazioni sociali e dei sistemi di significato che passano sotto il nome di cultura. Le relazioni tecniche sono embedded in relazioni sociali e possono essere comprese solo all’interno della matrice relazionale come un aspetto della socialità umana (Ligi, 2003: 165).
Gli esseri umani vivono immersi in un orizzonte materiale e ne respirano i simboli che loro stessi attribuiscono alla materia. La scoperta della materia è un viaggio costante sulla superficie del quotidiano e la superficie delle cose non finisce mai. Gli oggetti odorano di quotidiano definendo luoghi ed epoche.
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